Il primo racconto di traversata che ho ascoltato a Mazara, nell’autunno del 2008, fu quello di una minuta, coraggiosa donna tunisina: timida, col suo italiano spezzettato tra i denti, faceva fatica ad alzare gli occhi. Cambiai il suo nome in Jasmine, trasfigurando la sua storia e mantenendone gli aspetti essenziali. E’ l’unica storia, tra quelle evocate dal Generale, che riguarda non un annegato o uno scomparso, ma una vita che si salva. Si salva davvero? Nelle grinfie del vecchio italiano che, dice lui, “è sempre piaciuto”? Alla fine quando le chiesi se l’avrebbe rifatto quel viaggio, mi rispose decisa di no. Che se ne sarebbe rimasta a Tunisi.
Ho scritto e diretto Rumore di acque dopo alcuni anni passati in Sicilia, presentandolo per la prima volta all'interno di Ravenna Festival 2010. Da allora quel testo ha avuto una lunga vita in Italia e all'estero: si sono moltiplicate le traduzioni, le pubblicazioni e le messe in scena. Ho letto o visto o solo sentito il Generale assumere corpi e lingue diverse, e altre ancora sono le metamorfosi previste: in Francia, in Germania, in Romania, negli Stati Uniti, da Chicago a New York all'Oregon, e poi in Brasile, in Cile, e anche in una singolare edizione “corale” in Belgio, a Mons capitale europea della cultura 2015.
Quel generale monologante è in realtà un "medium", è attraversato da un popolo di voci e di volti che lo assediano, il popolo degli annegati, quello che neanche la sua indole burocratica riesce a ridurre a mera statistica. Sono gli scomparsi che si rendono presenti attraverso di lui: lui malgrado. Il generale è solo sulla sua isola sperduta nel Mediterraneo, ma è attorniato dai morti che non lo lasciano in pace, che lo tormentano, che gridano per essere "ricordati" non solo come numeri.
Che cos'è la cultura, che cos'è il teatro, da Sofocle a Brecht, se non un cerchio ideale in cui l'umanità riflette sulla violenza e sulle contraddizioni drammatiche che la lacerano? Questo a mio avviso significa prendere sul serio le parole “cultura” e “teatro”, affrontando i nodi "capitali" della propria epoca. E tra questi la tragedia dei migranti e dei profughi: in relazione a questi "sacrifici umani", a questa ecatombe senza fine, cosa può fare il nostro Vecchio Continente? L'Europa è davanti a una sfida che mette in gioco la sua stessa esistenza: deve dimostrare di essere all'altezza di questo momento storico, decisivo al fine di delineare la propria identità: un'Europa delle merci e dei burocrati, un' Europa impaurita in balia dei populismi arroganti, o un'Europa dei valori veri e della solidarietà come fondamento indispensabile di civiltà?
Siamo innocenti noi? Sono innocente io? Di tutte quelle tragedie che avvengono altrove, lontano dalla mia casetta, posso ritenermi non responsabile? Che c’entro io con la morte di mio fratello? Quel generale acido e nevrotico, quel funzionario che ne ha le scatole piene di star lì a contare numeri e morti e metterli in fila, un lavoraccio, tutti i giorni così, pure mal pagato da quelli delle capitali, quel ragionierino demoniaco e sarcastico, quello spettatore impotente davanti ai telegiornali, quello, proprio quello, siamo tutti noi. Lo “sproloquio” è venuto fuori di getto, un flusso inarrestabile di numeri e immagini. L’ho scritto a Mons nel gennaio del 2010, sotto la neve, nei giorni di pausa delle prove del detto Molière: mi chiudevo in casa e sprofondavo nel Canale di Sicilia, il grigio cielo del nord Europa si trasformava nella luce del Mediterraneo. Mi rileggevo tutto quel che mi ero appuntato nel mio quaderno di viaggi a Mazara. Storie e racconti, ma non solo. Il canto del muezzin sul suolo italico. Le viuzze intricate della casbah. Il verde squillante delle cupole della cattedrale. Mi nutrivo anche di quelle che erano state le impressioni più forti dei miei compagni di avventura: Ermanna Montanari, che aveva sentito subito la presenza del vulcano, un vulcano sotto l’acqua, un’acqua rossa, infuocata, e su quella aveva da subito immaginato un militare; e Alessandro Renda, che riprendeva tutto quel che poteva con la telecamera, imparava frammenti di tunisino lavorando con gli adolescenti della non-scuola, e rivedeva sotto altra luce le sue radici mazaresi, ricucendo genealogie e arazzi di storie familiari. Questo oratorio per i sacrificati, i Fratelli Mancuso lo hanno poi arricchito con la loro musica d’eccezione, con le loro potenti voci antiche, che sembrano gridare il dolore dell’umanità dal fondo di un abisso.
Ma in questo 2015 la “questione” dei profughi è esplosa, è diventata oscenamente “visibile”: mentre scrivo i quotidiani aprono con la foto del cadavere di un bimbo siriano tra le braccia di un poliziotto turco, la foto “che scuote l’Europa”, titolano i quotidiani. Non bastano migliaia e migliaia di morti a scuotere l’Europa? Non basta sapere dei bambini annegati a centinaia e centinaia, ci vuole una foto in prima pagina per scuotere l’Europa, il mondo? In questo 2015 al nostro Rumore di acque stanno giungendo richieste dai posti più impensati: scuole, centri sociali, piccole sale teatrali. Per rispondere a queste chiamate, pur continuando a girare nei teatri insieme ai Fratelli Mancuso, nell’edizione da palco che ha debuttato nel 2010, ci siamo inventati una versione più agile dello spettacolo: Ermanna ha ripensato la scenografia, disegnando a terra una performatica spirale di carbone, mentre Alessandro è accompagnato dalle musiche registrate del fisarmonicista Guy Klucevsek, con cui abbiamo realizzato una particolare edizione di Rumore di acque a Milwaukee. E con questo nuovo allestimento possiamo andare quasi ovunque, ovunque la necessità chiamerà lo spettacolo, anche sulla spiaggia: come se fossimo in tempo di guerra. E forse ci siamo davvero.
Marco Martinelli, Ravenna 3 settembre 2015