BESTIARI: MUTAZIONI ANIMALI TRA LA SCENA E L'ARCHIVIO
Così come dei movimenti dettati dalle forze dissolvitrici del ‘solve’ l’archivio si poneva come captatore, strumento di osservazione e perfino prosecutore, di questo contromovimento e delle sue forze complementari e opposte – quelle relative al 'coagula', alla ricomposizione in Figure aperte, ibride, vocate alla metamorfosi dell'umano in varie accezioni e in differenti modalità – esso si fa, al pari, intercettatore, connettore e rivelatore ideale. In particolare, potremmo dire che l’archivio delle Albe agisce, in questo caso, attraverso una sorta di ulteriore doppio movimento: esso, infatti, si fa da un lato spazio visibile e manifesto di ciò che, come premessa, è di per sé invisibile e ineffabile, ossia delle modalità di porsi in attenzione e in ascolto nei confronti dell’altro da sé cui tendere e verso cui aprirsi. Dall’altro, polo d’attrazione e perlustrazione tanto dei momenti di metamorfosi quanto di ciò che precipita come resto stabile di quel flusso di instabilità.
Esso, potremmo dire, è attraversato e informato da quel movimento che oscilla ininterrottamente tra le modalità del ‘farsi concavo’ e quelle del vero e proprio ‘farsi coro’, dell’accoglimento metamorfico. Così, ad esempio, la lunga teoria di quaderni di lavoro di Ermanna Montanari che l’archivio conserva, ci si presenta come un unico, ampio campo aperto che, negli anni, ha accolto in parole le molteplici forme del suo ‘farsi concava’, della sua attenzione di là dalla propria soggettività umana. Appunti di ‘ascolto’ che tracciano linee di fuga da se stessa e di connessione con ogni altro da sé.
Interrogando quei quaderni più che cronologicamente come intreccio di rimandi, ritorni e anticipazioni, li si scopre come attraversati da costanti tracciati di riferimenti che spostano di continuo l’asse della percezione dalla dimensione umana a quella di un’alterità che si articola trasversalmente tra il regno animale – di là dalla nostra specie –, quello vegetale, fino a quello minerale. Tre direttrici di attenzione, potremmo dire, che si pongono come ideali inneschi delle successive metamorfosi che la scena permette, a varie intensità, di concretizzare. Un possibile punto di avvio in questa fitta mappa di rimandi al proprio decentrarsi verso l’alterità è un appunto schizzato su uno dei quaderni preparatori de I Polacchi (1998), nel quale Montanari invoca l’esigenza di:
«una creazione di tempo, la possibilità di un altro tempo, la possibilità di una trasformazione, una alchimia, canale di trasfigurazione, farsi trapassare dalla figura di un altro, non necessariamente umana, anzi mai, fiore, lingua di cane, orecchie d’asino. È un elementare mutazione di pelle».
Un’esigenza cui fa eco, ampliandola, un’altra annotazione, inscritta stavolta in una sezione di un quaderno dedicato a Rosvita (1991) ma riconducibile all’epoca del lavoro di elaborazione di Cenci (1993), sezione che raccoglie una serie di riflessioni intorno a differenti artiste donne – da Edith Clever a Louise Bourgeois, da Mara Redeghieri degli Ustmamò alla scrittrice albanese Diana Çuli, a Patrizia Cavalli – e nella quale l’attenzione si sposta poi di là dai confini del solo femminile, per rivelare che:
«Sempre mi ha interessato chi non è sorto, chi non ha lasciato visibile traccia. E sempre mi hanno interessato i senza nome. Animali, piante, donne. Questi che fecondano nascostamente, in ombra, contro o per loro volontà».
Un’aspirazione e una necessità che configura, dunque, direttrici di ascolto e apertura innanzitutto verso l’alterità più prossima, ossia quella animale, emblema primo di ogni possibile, ulteriore ibridazione e metamorfosi, che riempie quegli spazi e quei tempi anch’essi concavi che dicevamo, ossia quelli dei viaggi, che appaiono costellati, nei rispettivi diari, di uno slittamento dello sguardo e dell’ascolto dall’ambito umano a quello animale. Come nel primo viaggio in Grecia, del 1986, il cui diario si popola di animali, soprattutto di gatti, e nel quale possiamo leggere: «Amare gli animali è vivere con loro e non amarli per la loro bellezza: si diventa così più umani nel senso di randagi, nomadi, liberi, selvaggi».
Annotazioni che sembrano legarsi, in un ponte ideale, con un appunto del 2007: «Non voglio che niente sia invisibile, che tutto passi dal corpo, che sia tangibile, nella gioia e nella sofferenza. Così come mangiare carne, spargere il sangue di un animale, ne sono responsabile, così come sono responsabile di ogni atto politico, umano che accetto nell’ignoranza, nell’invisibilità. Devo sapere, cercare di sapere per non vivere nell’“innocuità” indecente della vita».
Se i ‘mondi paralleli’ dei primi spettacoli, appartenenti al Cantiere Dick, erano già una forma di smembramento e di successiva metamorfosi aggregante, questa era ancora appannaggio di una dimensione umana, seppure spalancata oltre se stessa. Sarà, invece, soprattutto da Confine (1986) in poi, l’opera realizzata a partire dall’omonimo testo di Marco Belpoliti, che quelle collisioni si moltiplicheranno a coinvolgere in primis la teriosfera. Un’opera che debutta proprio in quel 1986 del viaggio in Grecia di Montanari e Martinelli e che è imperniata intorno alla Figura di Raffè che è innanzitutto sconfinamento di là dall’univocità della propria dimensione femminile, dal momento che, come spiega Montanari stessa, «fluttuava tra i sessi […]. Un caleidoscopio di figure tutte a misura della mia piccola persona. […] Fatta di presenze anonime, senza contorno». Per ingaggiare, attraverso quel primo sconfinamento, una lotta contro gli angusti limiti del proprio stesso corpo, per renderlo, appunto un ‘confine’ nella doppia accezione che questo termine implica, ossia uno spazio che insieme delimita e spinge a varcarlo.
Confine non lascia dietro sé tracce audiovisive, ma ancor più di quello che avrebbe potuto dirci una registrazione dello spettacolo, è interessante vedere come già tra le sue tracce cartacee emerga questo movimento di fusione – che andrà maturando e radicalizzandosi sempre più negli anni successivi – per il quale l’umano e la sua carne, il suo corpo, è coinvolto in un’iniziale condizione di combinazione con l’animale, attraverso la scena. Nel foglio manoscritto datato «Agosto ’87» possiamo leggere il messaggio rivolto dalla compagnia allo spettatore, nel quale l’opera è presentata non come uno spettacolo ma come uno spazio che travolge, in un’unica Figura in lotta con se stessa, l’umano nella sua forma più disperata e l’animalità nella sua virtualizzazione capace di farsi tutt’uno con esso:
Nel medesimo faldone, un altro documento – un foglio di sala stampato, riconducibile a una replica al Teatro Sangeminiano di Modena dell’Aprile 1986 –, presentando la compagnia, pare farsi cornice del precedente, inscrivendo Confine nel contesto di un’idea di teatro che trova una coerenza con gli spettacoli antecedenti proprio nella perlustrazione della dimensione umana di là da se stessa, nella sua disgregazione e fusione con l’alterità:
E a partire da Confine si dipanano una varietà di direttrici di aggregazione legate principalmente alla teriosfera che percorrono, a varie intensità, i lavori delle Albe lungo gli anni. Così, la prima, reale metamorfosi animale che si presenta, pochi anni dopo, sulla scena delle Albe precipita in archivio a partire da quello che, anche in questo caso, può essere considerato come una sorta di dispositivo, stavolta di tipo ibridativo, piuttosto che decostruttivo. Ci riferiamo alle lunghe orecchie d’asino nere in cartapesta, con una fascia in cuoio che le tiene insieme e che permette di indossarle, fungendo da fascia da applicare alla fronte, realizzate per Siamo asini o pedanti? (1989). Si tratta della prima, reale zoomimesi, che nasce già come raddoppiata, potenziata dalla sua stessa, specifica natura e che, anche in funzione di questo, si porrà come emblema di tutte le altre metamorfosi animali delle Albe.
L’asina Fatima, infatti, incarnata da Montanari e protagonista dell’opera, incarna l’essere attraversato dalle voci del mondo, che quelle lunghe orecchie intercettano e, come canali di trasmissione, inglobano nel suo stesso corpo. Un essere che è tutto ascolto e attenzione, che rappresenta esattamente quel farsi concavi per porsi in relazione e unione con tutto il circostante, un «sapere cavo», come lo definisce la stessa Montanari.
Se la giacca con le forchette infilzate nel suo tessuto e, dunque, nella carne della Figura che la indossava e il morso del cavallo fungevano da dispositivi che aprivano il corpo umano a un moto di destrutturazione fisica e vocale-linguistica, il dispositivo rappresentato da queste orecchie d’asino, lo spalancano a una metamorfosi che investe la testa, insieme come elemento visibile e come custode dell’apparato uditivo e vocale. Un dispositivo che – a fronte del fluire del corpo attraverso le metamorfosi che esso ha innescato e, di conseguenza, della sua impermanenza radicale – permane a sancire quell’innesco, a rendersi stabile confine del farsi soglia della testa della Figura, come due poli d’attrazione di forze, due antenne pronte ad avviare sempre nuove mutazioni.
L’archivio si presenta, allora, come custode di ‘blocchi di divenire’, dei suoi inneschi e delle forze che essi sono capaci di generare, piuttosto che, semplicemente, dei loro singoli esiti svoltisi una volta per tutte. ‘Blocchi di divenire’ ancora in funzione, in grado di proseguire altrimenti la loro azione aggregatrice. Infatti, è interessante notare, a tal proposito, come quel dispositivo rappresentato dalle orecchie d’asino costruite per Siamo asini o pedanti? – che istituisce il proprio ‘blocco di divenire’ a partire dalla testa di Montanari e dal suo farsi ascolto-voce della dimensione sonora asinina nella sua totalità, già intesa, a sua volta, come ascolto del mondo nella sua interezza – non esaurisca quella sua azione con il chiudersi dell’opera. Il medesimo dispositivo, infatti, tornerà ad agire sette anni dopo in All’inferno (1996), attraverso la figura di Farì, asina incarnata anch’essa da Ermanna Montanari, che si generà nell’identico divenire attraverso la voce per boati dell’asinità in trasmutazione, che la ripresa bolognese curata dal DAMS e montata da Gerardo Lamattina e Marco Martinelli ci consente di ascoltare nel suo depositarsi in archivio come eco audiovisiva.
Fino all’esponenziale moltiplicarsi della sua funzione ormai consolidatasi, nella disseminazione di identiche orecchie asinine innestate alle teste degli ‘spiriti della notte’ che popolano la scena di Sogno di una notte di mezza estate (2002), incarnati da Antonio Dikele Distefano, Moussa N’Diaye, Samba N’Diaye, Serigne Mbacke Niane, Bathie Niane, Madiama Fall, Falé Sarr, Pape Amadou Sowe e Salif Sowe. Una moltiplicazione che scatena nuove forze d’ibridazione teriomorfa che conducono, stavolta, l’umano verso un’apertura ulteriore, un passo più in là: a comprendere nelle proprie metamorfosi animali che appartengono a quella dimensione liminare in cui il reale si fonde con l’immaginario collettivo. Il corpo di Montanari, attraverso la Figura di Ippolita, assume stavolta su di sé uno degli archetipi più importanti dell’ibridazione tra umano e animale, ossia la sirena.
L’archivio mostra questo ulteriore dispositivo d’ibridazione, ossia la coda di sirena indossata da Montanari-Ippolita nel corso dell’opera, che rivela l’evidenza di tutta la sua contrapposizione al dispositivo precedente: l’azione della zoomimesi è trasferita, per tramite di questo nuovo dispositivo scenico, dalla testa alle gambe, dall’apparato uditivo e fonatorio a quello motorio.
Se lì era in gioco un farsi concavo del dire, un esser-detti dalle voci del mondo e di tutte le sue sofferenze, qui è in gioco un analogo farsi concavo dell’azione, un esser-mossi dalla volontà altrui, un’obliterazione del movimento che ci riporta ai modi con cui l’umano destituiva se stesso, qui colta già nella sua prosecuzione aggregante.
Uno sconfinamento della teriosfera nella noosfera che, in un altro movimento aggregante che, qui, non coinvolge più il corpo scenico di Montanari ma quello di Roberto Magnani, giunge ad attingere a uno degli esponenti del mondo animale più radicati nell’immaginario collettivo. Al punto da incarnare, potremmo dire, uno degli emblemi dello stesso inconscio collettivo occidentale. Ci riferiamo al Mickey Mouse creato da Walt Disney, che è, appunto, protagonista di un’ulteriore mutazione nel segno dell’animalità, deviata oltre lo stesso mondo reale, ossia quella presente ne La mano (2005).
È ancora l’archivio costumi della compagnia a presentarci quell’ulteriore dispositivo che ha generato questo nuovo movimento metamorfico. Una maschera con il volto, appunto, di Mickey Mouse si presenta come elemento che, stavolta, agisce a fagocitare l’intera testa dell’attore e non semplicemente a incorniciarla con elementi ibridativi.
Una fagocitazione che agisce anche qui sulla dimensione sonora della Figura, ma nella direzione antitetica rispetto a quella segnata dalle orecchie d’asino. La trasmutazione animale non agisce più, qui, a scatenare le possibilità del dire per tramite delle voci altrui che si incidono in quella dell’attore, nel suo essere parlato attraverso esse, ma a sbarrare la via a ogni possibilità di parola, a generare una Figura muta che occupa la scena in una dimensione onirica che attinge direttamente dalla psiche stravolta dell’altra Figura presente, ossia della protagonista, la Isis incarnata da Montanari. Un ‘blocco di divenire’ che, tramite quella maschera da Mickey Mouse, ha trascinato l’umano e l’emblematico animale del nostro inconscio collettivo a trasfigurarsi al contempo nell’inconscio individuale di Isis e, in esso, nell’immagine-ricordo-fantasma del fratello morto, il chitarrista Jerry Geremia Olsen. ‘Blocco di divenire’ che, dal mutismo di Magnani, investe anche il corpo di Montanari che assume su di sé la voce stessa di quel fratello, compensando con questa ulteriore fusione e trasfigurazione il divieto ad articolare voce e linguaggio che quella maschera istituisce.
E i quaderni di lavoro di Ermanna Montanari, ci consentono stavolta di osservare quanto profondamente inscritta in una dimensione che dall’umano si dissolve nell’animalità sia una delle opere centrali del percorso delle Albe, ossia L’isola di Alcina (2000).
Nel fluire di idee iniziali relative al possibile spazio scenico che concretizzi quell’isola, quel luogo soffocante e angusto che incarna l’autoemarginazione delle due sorelle protagoniste, leggiamo come esso potrebbe essere, ad esempio, «una cantina, che è anche il suo bozzolo di farfalla […] un antro buio» al cui interno, tra altri oggetti dismessi, potrebbero esserci «un maiale, […] un cane, […] un luogo in disfacimento ma sontuoso». Ed è in un altro quaderno preparatorio a L’isola di Alcina che Montanari appunta: «Maiale = anatomia antropomorfica dell’animale e la sua nudità», il medesimo quaderno nel quale scrive – anch’essa ipotesi non realizzata – che le «due sorelle hanno un maialino in mano o sulle spalle» e che a Giorgina, la sorella di Alcina, «il ragno le andò al cervello».
Una disseminazione di riferimenti animali colti nel loro divenire altro da sé, funzioni di riconfigurazione dell’umano stesso in relazione, tra le altre cose, a quella funzione trasmutatrice incarnata, ancora nel nostro immaginario collettivo, dalla Alcina dell’Ariosto, che mutava gli uomini in animali, piante e minerali. Disseminazione che, nell’opera vera e propria, si condenserà nella sola figura animale che sopravviverà alle varie ipotesi, ossia a quella, molteplice, dei cani che brulicano sotto la pedana-isola delle due sorelle a incarnare l'isolamento delle due sorelle.
E l’isolamento di Alcina fa tutt’uno con quello della Bêlda di Luṣ – nelle due versioni, rispettivamente del 1995 e del 2015 –, la guaritrice emarginata ai confini del consesso civile da quegli stessi compaesani che, nascostamente, a lei si rivolgono per risolvere ogni problema, sia esso del corpo o dell’anima. Se la dimensione animale non è, in Luṣ, altrettanto centrale che ne L’isola di Alcina, essa si spalanca però, a partire da quell’opera, in un ulteriore salto di piani. Quello che nel lavoro delle Albe e nel loro archivio si istituisce dapprima tra palco e sala, tra performance e spettatorialità, tra azione scenica e suoi ideali destinatari e, di conseguenza, tra i differenti media, tra i differenti linguaggi artistici che in essi si intersecano.
Montanari racconta di come Gianni Celati «venne a vedere Luṣ, in un oscuro centro sociale a Ravenna» e, «colpito da quel monologo cantato in dialetto romagnolo», afferma che tutto ciò che era avvenuto in scena non poteva essere destinato a spettatori umani, quanto, piuttosto, a un pubblico animale. Così, continua Montanari, «quando decise di fare il suo film sulle “case che crollano” mi chiamò a recitarlo davanti a un branco di asini. Fui subito entusiasta dell’idea, e per il legame con l’asino, mio animale totem, e per la patafisica verità che solo gli asini possano essere un “possibile” pubblico per il teatro, oggi. Si fece il girato, anche se nel film poi non venne montato. Recitai Luṣ su una cassetta da frutta, il pennato in mano, gli asini in precedenza liberati vennero spontaneamente a far corona di respiri attorno alla mia cassetta. Mi ascoltarono in silenzio, e quando terminai si allontanarono, come se sapessero. Debbo a Gianni il ricordo indelebile di quel giorno, come se mi fosse stato svelato un segreto rovinoso».
E se il film di Celati, appunto, non includerà il girato di questo evento emblematico e radicale, esso abita la sezione audiovisiva dell’archivio delle Albe, in quello spazio ibrido che, dicevamo, corre in equilibrio tra teatro, cinema e archivio che è il film Er (2020) di Marco Martinelli, che, appunto, lo colloca tra gli altri estratti della storia artistica di Montanari.
Si tratta, dunque, di un evento che, nell’archivio, declina differentemente e ulteriormente l’idea di dispositivo capace di istituire la trasmutazione tra umano e animale che abbiamo osservato fin qui. Trasferendosi dal mezzo teatrale a quello filmico, infatti, quel dispositivo ibridante che abbiamo visto incarnarsi nei differenti elementi che l’archivio tiene in vita tra le stanze ideali del reparto costumi, assume le specificità e le possibilità del linguaggio cinematografico, potenziandosi ulteriormente. Un salto di piani e di linguaggi, nel segno delle forze e dei movimenti di aggregazione di là dall’umano, che caratterizza, d’altronde, anche il film precedente di Martinelli, ossia quel The Sky over Kibera (2019) che abbiamo già avuto modo di interrogare in merito a questioni differenti.
È l’avvio stesso del film, a ben guardare, a configurarsi come dispositivo di mutazione umano-animale per tramite dello specifico filmico e, in particolare, del montaggio. Una mutazione che, come nel caso di Alcina e di Bêlda, riguarda la possibilità o meno di evadere dalla propria condizione isolata e disperata, qui declinata in una dimensione non più individuale ma collettiva.
Il mediometraggio, infatti, si apre con l’inquadratura di un uccello posato sui rami di un albero di Kibera che, dopo pochi secondi, vediamo volare via libero, inquadratura alla quale il montaggio giustappone, senza soluzione di continuità, quella dei bambini dello slum anch’essi appollaiati sui rami, il cui volo ideale – cui pare alludere, subito dopo, la soggettiva che, dall’alto e a piombo, ci permette di vedere scorrere lentamente i tetti della gigantesca baraccopoli – ha però uno sguardo ancorato verso il basso, che ne fa una perlustrazione preliminare della condizione nella quale vivono, osservata come a volo d’uccello. Azione che, da lì, si dipana in una teoria di metamorfosi animali, tutte altrettanto collettive, come superamento di sé e della propria univocità di specie attraverso il coro che, ancora una volta, si fa emblema di una relazione trasformatrice con un tutto ulteriore.
Partendo dalle fiere incontrate da Dante nel I Canto, che si moltiplicano ognuna in un coro di ragazzini in schiera
Fino a giungere al finale, con quella processione del ‘Purgatorio dei poeti’ che attraversa lo slum come una moltitudine animale che richiama alla mente l’allegoria istituita da Dante tra le anime del Purgatorio e un gregge di pecore.
E questa trasmutazione di piani da un linguaggio all’altro, nel passaggio dalle modalità di ibridazione concesse dal teatro a quelle aperte dal cinema, ci conduce a un passaggio che travalica la sola zoomimesi, spalancandosi al vegetale.
ERBARI: TRASMUTAZIONI NEL SEGNO DEL VEGETALE
Del vegetale è, d’altronde, il titolo di uno dei capitoli – l’Opus IV – di Cellula. Anatomia dello spazio scenico, nel quale Enrico Pitozzi ed Ermanna Montanari, in un dialogo che si intreccia alle fotografie di scena delle Albe che a vario titolo partecipano, appunto, della dimensione vegetale, mostrano una simile direttrice a partire dal piano orizzontale del palcoscenico e dal suo germogliare e fiorire in un piano verticale, attraverso il corpo e l’agire dell’attore. E attraverso l’evidenza del medium cinematografico, proprio in The
Sky over Kibera emerge anche quanto la dimensione vegetale sia, al pari di quella animale, una delle direzioni verso cui viaggiano i movimenti centripeti di aggregazione con l’alterità che si muovono nell’arte delle Albe e nel loro archivio. Lo spazio filmico di The Sky over Kibera si apre, appunto, a questo germogliare e fiorire, non più, qui attraverso la relazione tra asse del palco e asse dell’attore, bensì per tramite, ancora una volta, dell’azione del montaggio come dispositivo di giustapposizione e fusione dell’immagine.
Così, ad esempio, le entrate in campo di Virgilio prima e di Beatrice poi possono essere interrogate, appunto, come apparizioni immerse in un movimento di ibridazione vegetale.
Il caso di Beatrice, invece, si muove nella direzione contraria, pur permanendo in un’apparizione segnata dal vegetale.
Nel suo primissimo piano, che inaugura la sua presenza all’interno del film, è da subito inscritta una rosa che si frappone tra il suo volto e il nostro sguardo. Quasi un fermo immagine al quale, con un taglio netto, segue il suo movimento di ingresso nella direttrice opposta a quella di Virgilio, ossia dall’alto dell’inquadratura per tramite di una scala a pioli. Stavolta il vegetale s’è mutato nello sfiorire – nel movimento dall’alto verso il basso, appunto – di quella rosa nella quale, a sua volta, s’è mutata questa Beatrice kenyota.
Ma se queste sono le manifestazioni più recenti della metamorfosi umana nel vegetale, che ci si mostrano già nella loro forma compiuta attraverso il linguaggio filmico, l’archivio stesso si presenta come attraversato dalla dimensione del vegetale, anche in questo caso in un’oscillazione tra un’attenzione a esso che proietta fuori di sé, e un’evoluzione di quell’attenzione nel suo farsi processo di creazione scenica. A partire dalle numerose annotazioni nel segno del vegetale che costellano, ancora una volta, i quaderni di lavoro di Ermanna Montanari. Un’osservazione e un ascolto del regno vegetale che corre lungo gli spazi dei quaderni a farsi emblema del modo analogo in cui si dissemina pian piano attraverso il resto dell’archivio, arrivando gradualmente a slittare dal movimento del solo ascolto a quello del suo innesto nei processi scenici, per destrutturare ulteriormente l’umano oltre se stesso. Se, infatti, quella con la dimensione animale lo proiettava fuori dalla propria specie, mantenendolo tuttavia nell’alveo degli esseri senzienti, l’ibridazione con la dimensione vegetale lo spinge più in là, in un’ulteriore uscita di sé e interconnessione con il circostante.
Dalle ipotesi sullo spazio di Siamo asini o pedanti? (1989): se la scena conosciuta grazie al modo in cui lo spettacolo si è strutturato nella sua versione definitiva lo colloca dentro la casa di Iba, Abib e Khadim, le prime ipotesi sulla sua ambientazione lo immergeva in uno spazio aperto. In particolare, come appare da uno dei quaderni di lavorazione di Montanari del Dicembre 1988, in un giardino, nel quale i mezzi tecnici sono già una fusione vegetale, dal momento che potrebbe prevedere «[m]icrofoni ad aste come i fiori del giardino». O come nel caso delle prime ipotesi relative a Ippolito (1995), per le quali, in un appunto del 24 Giugno 1994, si legge: «Una piattaforma ellissoidale (cerchio spirale) circondata da fiori e spine e dipinta sul fondo con metallo e colori caldi».
Fino a un regime del vegetale che finisce per innestarsi con lo spazio vero e proprio del corpo e della voce, a dominarne funzioni e modificazioni. Per cui leggiamo, per quanto concerne, ad esempio, la Daura di Bonifica (1989): «Se dovessi definire la sua voce direi che è una voce di calla. Il suo corpo? In scena ho il maglione che Marco usava nella vita, scarpe ortopediche simili a quelle che usa la mia nonna che si chiama Daura e che amo tanto tanto».
E se quelle scarpe ortopediche agiscono qui da innesto che incarna una dimensione insieme umana e animale, l’archivio costumi delle Albe ci presenta quello che si pone, potremmo dire, come l’esempio più evidente, nella storia della compagnia, di dispositivo scenico legato al corpo attoriale nel segno del vegetale. Non i tanti innesti di rami, ramoscelli, piccoli alberi che ne costellano le opere e che rappresentano ancora un’alterità, un elemento reale e autonomo distinto dal corpo dell’attore, bensì un dispositivo rappresenta una dimensione vegetale che ha attraversato un ‘blocco di divenire’ insieme al corpo attoriale. Che s’è mutata in funzione per partecipare del medesimo movimento trasformativo che l’archivio custodisce tanto in parole, che ne dichiarano gli intenti, quanto nell’evidenza fisica, presente e concreta di quello specifico dispositivo.
Ci riferiamo all’abito di scena di Madre Ubu, Figura che fluttua in un arcipelago di opere che vanno da I Polacchi (1998) a Perhindérion (1998), da Mighty mighty Ubu (2005) a Ubu buur (2007). Scrive Montanari su questa Figura: «La forma a calla dell’abito di M. Ubu, la faccia bianca dipinta alla maniera orientale e la lunga parrucca di capelli finti bianchi fanno di M. U. una figura di danzatrice di butō. […] Un continuo incessante fluttuare della voce e del corpo in una rigida forma di calla un vero e proprio emblema bianco. È il fiore della calla, senza profumo, svuotato di ogni orpello, è la testa di un lungo stelo verde: P. Ubu verde».
Dunque, il vegetale qui, fattosi calla – fiore che per le Albe rappresenta un emblema che ritorna costantemente in un’infinità di modi diversi – si è trasfigurato in una mutazione che stravolge e investe completamente il corpo umano di Montanari, trascinandolo in un divenire-vegetale totalizzante. Un abito scenico anche stavolta dispositivo di un divenire, appunto, che, come la calla capovolta, fascia strettissimo il corpo dal collo alle braccia, alla vita, condizionandone i movimenti, irrigidendoli come quelli di una marionetta e, con essi, la voce, pressando sul diaframma, sull’apparato fonatorio. Per allargarsi, poi, in basso, proprio come fa la calla, tra la vita e il bordo che sfiora i piedi, come a permettere, anzi a generare, quei movimenti a spirale, rotatori, della Figura, che – abbiamo visto – contribuiscono alla sua deumanizzazione e alle sue conseguenti metamorfosi.
LAPIDARI: CONCREZIONI DELL'INORGANICO TRA SCENA E ARCHIVIO
Di questa oscillazione attraverso i regni di cui l’archivio si fa custode primo, di questa graduale ed esponenziale apertura dell’umano sulla scena delle Albe a farsi soglia per accogliere ogni tipo d’alterità, gli esiti si spingono sempre più in là, in quelle zone del reale che sconfinano addirittura nell’inorganico, nel minerale e in tutto ciò che è considerato ‘non vivente’. Roberto Marchesini scrive che la «distinzione, a cui siamo così tenacemente attaccati, fra vivente e non vivente, fra chi sente e ciò che non sente, forse non è che l’ultimo baluardo dell’antropocentrismo». D’altronde, il minerale nella «quasi totalità è di origine organica, com’è testimoniato dai numerosi resti di animali e di piante contenuti al suo interno; spesso però la originaria struttura organica è distrutta del tutto o in parte dai processi geologici». Dunque, la trasmutazione dell’umano attraverso l’animale e il vegetale fino all’inorganico del minerale è come se condensasse quell’intero processo millenario nella breve permanenza della scena.
Per osservare quella che può essere considerata come la scaturigine, all’interno dell’archivio, del suo dispiegarsi nel segno del minerale, dobbiamo spostarci idealmente nelle stanze dell'archivio dedicate ai 'cimeli' che accompagnano il lavoro della compagnia e le energie che a esso danno vita e che da esso si generano. Sezione che accoglie, appunto, una collezione particolare e inconsueta, rappresentata da una serie di pietre che Marcella Nonni, cofondatrice e attuale direttrice delle Albe, oltre che presidente di Ravenna Teatro – è solita donare al resto della compagnia in occasione del debutto di ciascuno spettacolo. Una pietra differente per ogni messa in scena, accompagnata da un biglietto che, descrivendo caratteristiche e qualità di quello specifico minerale, le lega a quelle che apparterrebbero alla specifica opera.
Dal diaspro alla pietra lavica, dall’ammonite alla pirite, un vero e proprio lapidario che custodisce, potremmo dire, le energie di quelle opere: pietre-amuleti che, nel corso del rito che anticipa ogni replica, viene fatto passare di mano in mano tra tutti coloro che, a vario titolo, prendono parte allo spettacolo, come a trarre da esse, attraverso il tatto, quelle stesse forze da utilizzare sulla scena.
E in un salto dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, l’archivio tiene insieme quelle pietre con uno dei sistemi montuosi più alti del mondo, custodito anch’esso in una sua particolare mutazione che lo lega strettamente alla sfera teatrale e alle sue relazioni. Ci riferiamo a un ponderoso volume fotografico con gli scatti di Yoshikazu Shirakawa relativi all’Himalaya, che occupa un ideale spazio liminare tra la partizione riservata ai ‘cimeli’ raccolti dalle Albe nel corso degli anni e quella relativa alla biblioteca della compagnia stessa. Si tratta, infatti, di un’opera donata da Eugenio Barba e dall’intero Odin Teatret per il trentennale delle Albe, con l’auspicio di non rimanere mai in pianura e con una dedica che esplicita ulteriormente la simbologia incarnata, qui, dall’Himalaya: «Care Albe. Le Himalaye sono dentro di noi. Per questo non arriviamo mai alla vetta».
Una dimensione minerale che si propaga, da quel lapidario e da quel volume, ancora una volta alle parole scritte tra le drammaturgie di Martinelli e i quaderni di lavoro di Montanari, al suo porsi in ascolto, stavolta, anche dell’inorganico che riemerge – in una indiscernibilità sintomatica con l’animalità – fin dai suoi ricordi d’infanzia, tra i quali annota: «Mi sentivo una pietra nera a forma di scarafaggio». E nel suo investire la scena, è forse nelle pietre del pozzo al centro dello spazio di Ruh. Romagna più Africa uguale (1988) che il minerale fa la sua prima, fondamentale, comparsa. Quel pozzo custodito da Montanari che incarna, qui, l’intera Madre Terra, ossia esattamente la fusione, in un’unica Figura, di quei tre regni nei cui abissi quel pozzo pare sprofondare facendosi al contempo sprofondamento abissale nelle possibilità della voce di accogliere quella fusione. «La voce della Madre», leggiamo, appunto, in una delle didascalie della drammaturgia di Martinelli, «è profonda come il pozzo che sostiene la sua figura minuta». Lo stesso pozzo e la stessa Madre Terra che, più di trent’anni dopo, si ritroveranno ulteriormente unificati in Madre (2020), l’opera nella quale questa figura di Madre che incarna, pare, la natura nella sua interezza che non conosce separazioni, si ritrova precipitata nel fondo del pozzo e, attraverso il dispiegarsi delle possibilità stesse della sua voce al microfono, tenta di comprendere una simile caduta, un simile disastro.
Ed è anche una dimensione profondamente minerale quella che caratterizza Alcina ne L’isola di Alcina (2000). Quella Figura della quale Montanari scriverà: «Alcina è muta come le pietre delle cattedrali. E se all’improvviso cominciassimo a sentire quello che hanno da dire, quello che hanno accumulato, secoli di parole, confessioni, pianti, scalpiccii?». E ancora: «Alcina partecipa della durezza della pietra attraverso le sue ossa».
Questo sconfinamento finale nell’inorganico, che segue – ancora in un’idea non diacronica, ma in qualche modo sincronica – il passaggio dall’umano all’animale e dall’animale al vegetale, ci conduce a quello che, potremmo dire, rappresenta il punto di contatto massimo tra i processi scenici di destituzione dell’umano, quelli conseguenti di riaggregazione aperta alla metamorfosi estrema e l’opportunità, soprattutto, che tutte quelle forze, quei movimenti centrifughi e centripeti, si facciano archivio attraverso i dispositivi differenti rappresentati dai differenti linguaggi e media.
Ci riferiamo a una delle opere più recenti delle Albe, ossia a fedeli d’Amore (2018). Un’opera che segna realmente uno spartiacque che investe, in un unico movimento, il suo contenuto e le forme del suo manifestarsi.
La figura di Dante Alighieri ha, naturalmente, attraversato in modo trasversale e costante e più o meno manifesto il percorso artistico delle Albe, fino ad assumere assoluta centralità in quell’imponente progetto denominato Cantiere Dante, commissionato da Ravenna Festival e svoltosi tra il 2017 e il 2022. fedeli d’Amore, esterno ma contiguo al Cantiere Dante, pare contrapporre all'esponenziale moltiplicazione di Dante che quest'ultimo metteva in atto una sua perlustrazione come al microscopio, fino alle cellule prime che lo compongono e che rivelano, dietro il suo ‘io’, quei flussi di trasmutazioni perenni delle quali ogni ‘io’ possibile è solo un istante di condensazione in attesa di tornare a fluire nell’indistinto. Ed è proprio attraverso l’istante del morire di quell’‘io’ che una simile perlustrazione può avvenire.