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Percorso d'Archivio

Tracciati di deterritorializzazioni e spaesamenti: luoghi, spazi e culture

a cura di Marco Sciotto

L’archivio teatrale in generale e, nello specifico, quello delle Albe è innanzitutto un luogo che può essere definito come ‘luogo di luoghi’, o ‘spazio di spazi differenti’. Un luogo plurale, uno spazio fisico, reale, ma indistricabile dagli spazi che esso è capace di contenere al proprio interno in un’infinità di modi e di forme differenti, indissolubilmente legato a tutti i luoghi cui esso è capace di rimandare, di cui si fa ideale mappa ulteriore. L'arte teatrale, di per sé, per un verso condensa nel piccolo spazio del palcoscenico ogni possibile spazio altro, sia esso reale o ideale, e, per altro verso, è abitata da una dimensione ‘nomadica’ che la porta a ricucire le più disparate rotte di contatti, scambi, tournée e progetti che si dipanano di volta in volta. Ancor più nel caso delle Albe che, fin dai loro inizi, hanno considerato i luoghi, gli spazi e la dimensione culturale a essi interconnessa come ulteriore elemento da ripensare radicalmente, come ulteriore assetto da destrutturare fino alle sue fondamenta per recuperare un’idea di umano differente, legata a un costante e ininterrotto ‘farsi luogo’, piuttosto che a un mero attraversare, abitare o fondare uno o più luoghi. 

DECOSTRUZIONE DELLO SPAZIO DELLA PERFORMANCE DALLE ORIGINI AL TEATRO RASI

Ai movimenti di decostruzione della corporeità e della vocalità corrisponde una inevitabile funzione di decostruzione – in senso lato – degli spazi, dei luoghi, degli ambienti che li generano anche indirettamente o che li accolgono o che a essi sono a vario titolo legati. Una differente decostruzione che equivale a una costante messa in discussione della stabilità che li struttura e delle certezze anche culturali che li tengono in vita. Si tratta di movimenti che l’archivio accoglie: movimenti che potremmo definire di incessante deterritorializzazione e riterritorializzazione, di spaesamento e reinsediamento.

Tra i primissimi documenti che l'archivio custodisce, risalenti addirittura alla cosiddetta "Preistoria Albe", cioè al periodo delle prime sperimentazioni teatrali antecedenti alla fondazione della compagnia, c'è il dattiloscritto della stagione 1977/1978 che presenta il Teatro dell’Arte Maranathà alla città di Ravenna e che lo racconta innanzitutto nella sua voluta, ricercata e congenita disseminazione spaziale: «Dall’Ottobre 1977 vagabondiamo per quartieri, parrocchie, circoli, teatrini e sale di ogni genere e misura, recitando Beckett, Pinter, Campanile e opere nostre».

Un manifesto che radica le proprie stesse fondamenta in una necessità di ‘nomadismo’ artistico non riconducibile alla sola, naturale esigenza di una compagnia appena formatasi che non possiede dunque un proprio spazio di lavoro, bensì a quella di ripensare già da subito l’idea stessa di spazio teatrale, di dissiparlo negli infiniti spazi possibili che questo processo è in grado di generare.
Leggiamo, infatti: «Povertà, come autenticità, quindi, come semplicità. Come stile di vita, non altro. Alcuni che ci conoscono pensano che il nostro vagabondare per piazze e quartieri sia strumentale, al fine di “farci conoscere”. Si sbagliano, e di grosso. No vogliamo restare quello che siamo, né più né meno. […] Se il Teatro dell’Arte Maranathà smettesse i suoi buchi, le sue tane, le parrocchie, le sale 10 mt. per 5 (anche meno) per recitare nei teatri “seri”, il Teatro dell’Arte Maranathà rinnegherebbe le proprie radici, la propria ragione d’essere più profonda. Il Teatro dell’Arte Maranathà non sarebbe più il Teatro dell’Arte Maranathà».
Una rivendicazione di campo che si precisa però nell’affermazione successiva, per la quale essa «non significa il rifiuto a priori di certi “luoghi teatrali”: se lo riterremo giusto, lavoreremo anche per le poltrone in velluto rosso». Così come, di fatto, succederà di lì a poco, con il debutto nel ‘luogo teatrale’ che a Ravenna rappresentava proprio quel teatro ‘ufficiale’ e di tradizione al quale il nuovo gruppo artistico si contrapponeva, ossia il Teatro Alighieri.

È del 19 Maggio 1978 la dichiarazione in carta
intestata del Comune di Ravenna con la quale l’assessore alla cultura attesta che il «Teatro dell’Arte Maranathà […] ha esordito il 10 marzo 1978 al ridotto del Teatro comunale Alighieri, presentando […] “Aspettando Godot”».

Poco più di un anno dopo, un documento del 22 Ottobre 1979 a firma di Ersilio Tonini, allora Arcivescovo di Ravenna, si rivolge «ai parroci e ai rettori di Chiese» della città per segnalare loro che «Il gruppo teatrale MARANATHA’ ha ideato e allestito un’azione scenica “Via Crucis” che, per avervi assistito, mi preme raccomandare alla vostra attenzione, perché capace di far giungere fino al fundus animae dell’uomo moderno il pungolo del mistero della Croce del Signore».

Un doppio movimento – quello tra costituzione di spazi teatrali laddove essi non erano precedentemente contemplati e decostruzione di quelli ufficiali – che caratterizzerà in modo sempre più forte il lavoro delle Albe lungo gli anni. Anche quando da Teatro dell’Arte Maranathà si convertiranno in Linea Maginot, una simile necessità di scompaginamento dello spazio teatrale non si acqueta, anzi assume nuove pratiche e teorizzazioni, dettate non più dalle circostanze ma da una consapevolezza che via via si fa sempre più matura. Abbiamo
accennato – lungo il percorso dedicato alla dissipazione della figura umana e dell'assetto dello spettatore – al modo in cui, già in quegli anni di sperimentazioni anteriori al 1983, la compagnia mettesse in atto processi di creazione che spostavano l’asse dal palco alla strada, dal pubblico consapevole seduto in sala a quello inconsapevole e forzato a diventare tale nei luoghi pubblici della città.

E, rimanendo in quello spazio interstiziale dell’archivio dedicato a questa fase ‘preistorica’, possiamo osservare un sottile ma ricchissimo opuscolo bianco realizzato dalla compagnia per la stagione teatrale 1981/1982, che si presenta a sua volta come una sorta di piccolo, primordiale archivio nell’archivio, raccogliendo stralci di quaderni preparatori, note di regia, riflessioni e descrizioni degli spettacoli in repertorio.

Tra le pagine di questo piccolo archivio nell’archivio, al fianco di materiale relativo a spettacoli dall’assetto più ‘tradizionale’, troviamo una sezione denominata La
teatralizzazione della città
– relativa ai due progetti Attesa e lavoro: cadute verticali e Autobus. Transito con catene –, nei cui frammenti introduttivi scritti da Martinelli possiamo leggere un vero e proprio manifesto di questa esigenza di ‘demuseificazione’ del teatro costretto nei suoi spazi tradizionali e istituzionali e di irruzione – con modalità e pratiche anch’esse sottratte alle consuetudini e ai cliché del ‘teatro di strada’ – negli spazi cittadini, in una loro riconfigurazione perturbante, capace di rinnovare al contempo la concezione comune di teatro e di realtà, potremmo dire.

Il luogo teatrale nasce, dunque, nella storia delle Albe – come mostra l’archivio attraverso le tracce della sua stessa genesi – come già dissolto, disgregato nella sua stessa concezione.

E una simile destituzione che, già in questi primordi, investe lo spazio performativo delle Albe e che dalla dimensione chiusa, stabile e invariabile dell’opera lo devia nella direzione dell’effimerità e della costante riconfigurazione differente dell’evento, sarà la medesima che strutturerà anche il modo di intendere e concepire quello che, a seguito della fondazione di Ravenna Teatro del 1991, alla fine degli anni Novanta diventerà la sede principale, il quartier generale delle Albe che rimarrà comunque un spazio di partenza per costanti moti centrifughi di evasione, ossia il Teatro Rasi di Ravenna, in Via di Roma 39. Un modo di intenderlo e concepirlo che nell’archivio lascia impressa quella che potremmo definire come una folgorazione anticipatrice, una sorta di desiderio e necessità che sfocia quasi nella premonizione, un’esigenza che si fa, in modo quasi misterioso, visione di ciò che sarà. Tra le righe scritte da Ermanna Montanari nel suo diario del viaggio in Grecia effettuato insieme a Martinelli nel 1986, leggiamo:

«La Grecia mi ha fatto capire che l’edificio per il nostro teatro non deve essere un edificio nuovo. Non deve essere una struttura costruita apposta. Deve essere vecchio. Mura con storia. In Grecia le cose nuove non sono finite, quelle vecchie hanno il segno di chi è passato, di chi le ha calpestate. Le rovine indicano una civiltà che non può rinascere. Bisogna costruire sopra. [...] Mi piacerebbe però una vecchia fabbrica, un piccolo cementificio o mangimificio, perché sudano e sono costruite per il lavoro e come sarebbe bello consumarci dentro un rito. Forse più bello che non dentro una chiesa sconsacrata. E perché no vecchie prigioni, e perché no stalle».

L’‘edificio per il loro teatro’, infatti, dopo un decennio sarà proprio quel Teatro Rasi che rispecchia in pieno quel desiderio e quella
visione manifestatasi in Grecia. Un luogo molteplice, stratificato e plurale già da secoli, non costruito come teatro ma approdato a questa funzione dopo usi differenti che intrecciavano proprio il rito e il lavoro, la chiesa e la stalla, le rovine e la costruzione su esse. Quello che a fine Ottocento diverrà un teatro grazie all’acquisizione da parte del Comune di Ravenna e che nel 1919 verrà intitolato alla memoria di Luigi Rasi, è, infatti, un edificio che sorge a metà del Tredicesimo secolo come chiesa, con annesso monastero, dell’ordine delle clarisse – è Chiara da Polenta a farlo erigere nel 1250 –, per poi essere convertito in ‘cavallerizza’ dal 1823 al 1885, anno in cui il Comune, che lo ha appena acquistato, lo concede all’Accademia Filodrammatica, trasformandolo appunto in un teatro.
Così, l’elezione di uno spazio così composito e multiforme come il Rasi a propria casa artistica pare da un lato inverare quel desiderio epifanico appuntato da Montanari nei propri diari e, dall’altro, incarnare in un edificio fisico quella vocazione ‘eretica’ con cui viene fondato quel centro di produzioni insieme istituzionale e ‘corsaro’ che è Ravenna Teatro.

E l'archivio delle Albe è segnato, naturalmente, in lungo e in largo da tracce di ogni tipo riconducibili al Teatro Rasi. Si potrebbe dire che la quasi interezza dei suoi materiali è informata, in qualche modo, dal Rasi stesso, che ne è stato, d’altronde, anche custode per decenni. Ma sono i sintomi che l’archivio tiene in vita di questa natura così congenitamente vocata alla destituzione di ogni stabilità e di qualsivoglia ordine definitivo a porsi come realmente interessanti qui.

Se dalle parole che abitano l’archivio torniamo a spostare idealmente lo sguardo alle immagini che lo popolano, è interessante osservare come questa tensione alla trasformazione incarnata dal Teatro Rasi come luogo primario delle Albe si manifesta anche nella sezione fotografica in esso contenuta. Al fianco delle sue sottosezioni suddivise per spettacolo, infatti, un’intera
partizione è riservata a scatti relativi proprio all’edificio del Rasi. Scatti che non lo colgono nel pieno del suo essere abitato da corpi, opere, eventi o avvenimenti di vario tipo, ma completamente svuotato, dunque non come funzione ma come reale corpo protagonista. E si tratta di servizi fotografici che si sviluppano, potremmo dire, proprio intorno all’idea di mutazione e decostruzione, declinata in modi e prospettive differenti.

A partire dal servizio di Nevio Natali datato 1980/1982 che, attraverso decine di positivi a colori su carta a sviluppo cromogeno, equivale a un viaggio minuziosissimo attraverso ogni ambiente – interno ed esterno – del Rasi per fissarne la prima trasformazione subìta nel ’900, ossia quella relativa ai lavori di radicale ristrutturazione condotti dal 1959 al 1978.

Proseguendo, poi, con il servizio fotografico di Cesare Fabbri che conduce il medesimo
viaggio lungo gli ambienti del Rasi, ma nel suo nuovo assetto, successivo alla nuova, generale ristrutturazione avvenuta nella metà degli anni Novanta, dunque a seguito delle mutate esigenze derivanti dall’insediamento, nei suoi spazi, di Ravenna Teatro e delle sue attività. Fotografie che restituiscono un Rasi per come si presentava fino a prima degli ultimi, recentissimi lavori di rinnovamento della sala e del ridotto, svoltisi a cavallo tra il 2021 e il 2022.

Fino ad arrivare a un servizio fotografico che – al pari degli scatti di Enrico Fedrigoli per quanto concerne le opere teatrali delle Albe – pare cogliere il Rasi proprio nel vivo di questo attraversamento di forze destrutturanti e trasmutatrici, invisibili all’occhio nudo se non attraverso i loro esiti successivi, ma percepibili, invece, attraverso il congelamento dello scatto e la sua rielaborazione per mano dello stesso artista che l’ha realizzato.

Ci riferiamo alla serie di stampe in bianco e nero prodotte ancora da Cesare Fabbri, che raffigurano il Rasi solo per tramite della sua facciata medievale che, di foto in foto, subisce una serie di interventi materiali in postproduzione, integrazioni manoscritte che la sezionano, la frazionano, ne generano spaccature, obliterazioni, cancellature, suddivisioni in riquadri e forme che paiono scomporla in parti che di lì a un attimo deflagreranno. Una reinterpretazione artistica che pare quasi forzare l’immagine a farsi manifestazione visibile di tutte le energie modificatrici e centrifughe che attraversano in modo differente uno spazio come il Rasi. Interventi che ne spezzano la fissità per far emergere una pulsazione dell’immagine che la pone in movimento come in una sequenza cinematografica capace di consegnare allo sguardo ciò che esso non è in grado di percepire. Si tratta, potremmo dire, di forze destrutturanti che sorgono dall’impatto tra le mutazioni che i secoli hanno impresso attraverso le differenti modificazioni della sua destinazione d’uso e quelle generate dall’utilizzo di ogni suo spazio da parte delle Albe e di Ravenna Teatro, che è come se avessero condensato e forzato in un singolo edificio l’intera necessità e vocazione nomadica dell’arte della compagnia.

Pensiamo a due casi estremi come gli
spettacoli Perhindérion (1998) e, in modo ancor più radicale, Inferno (2017), che incarnano alla perfezione quell’esigenza di decostruzione dello spazio, di sua deflagrazione e dissipazione nomadica. Specie il secondo, grazie al quale la scena si estende a comprendere i corridoi, i piani superiori, i bagni, gli uffici, il foyer, oltre la sala che stavolta, però – oltre ad aver perso ulteriormente la propria centralità nel policentrismo radicale dell’opera –, viene ulteriormente disgregata rispetto al suo comune impianto, non concedendo al pubblico alcun luogo autonomo e a esso riservato, ma catapultandolo violentemente dentro l’opera stessa.

DETERRITORIALIZZAZIONI E DESTABILIZZAZIONI CULTURALI

Al fianco di quei movimenti di destrutturazione dello spazio incarnati dal Rasi, vi sono direttrici di fuga da quello spazio insieme chiuso e già smembrato, che l’archivio racconta nel dettaglio. Sono, naturalmente, le tournée di ogni singola opera delle Albe, delle quali l’archivio ci mostra dettagliatamente, stagione per stagione, al contempo città, spazi performativi, modalità di allestimenti e di promozione, luoghi in cui vengono ospitati progetti satellitari legati alle opere e ai percorsi di ricerca della compagnia. Una mappa minuziosa che, partendo da Ravenna, si espande idealmente dal Nord al Sud Italia, per poi, anno dopo anno, dilatarsi come un contagio fuori dai confini italiani e poi da quelli europei, sconfinando dagli Stati Uniti all’Africa, per citare solo i luoghi raggiunti con maggior frequenza.

Ed è interessante notare come l’archivio intrecci questi movimenti centrifughi, che potremmo definire di affermazione e costruzione, legati come sono al lavoro, alle repliche e alle tournée, con altri movimenti centrifughi che potremmo definire di spaesamento e decostruzione. Ci riferiamo a quelli incarnati dai viaggi effettuati dai componenti della compagnia, in particolare da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, non legati a spettacoli o a progetti di lavoro e che proiettano comunque le proprie orme tra le pieghe dell’archivio, oppure a quelli inscritti all’interno di viaggi di lavoro ma che di essi rappresentano ulteriori direttrici di fuga, parentesi di vuoto e decantazione.

Proiezioni di questi movimenti di deterritorializzazione le troviamo maggiormente in quelle pieghe dell’archivio che potremmo definire come le più intime e liminari tra vita artistica e vita privata, come i quaderni-diari di Ermanna Montanari, che custodiscono innanzitutto le memorie di un viaggio effettuato in solitudine a Venezia nell’Agosto del 1983, poi quelle del viaggio in Grecia del 1986 cui abbiamo già fatto riferimento, fino a un quaderno di vent’anni successivo, ossia dell’estate del 2007 relativo a un nuovo viaggio in Grecia, in particolare a Zante, che al precedente non potrà non fare riferimento, marcando differenze di condizioni e affinità di spirito che separano e insieme legano quei due decenni:

«23 luglio. Stamattina abbiamo ricordato il primo viaggio in Grecia dell’86 dopo Confine e dopo la settimana con Grotowski. Partimmo con una sportina di plastica e la cartella nera che Marco comprò in una cartoleria che ancora esiste in via Corrado Ricci. Restammo un mese e ci girammo in autostop il Peloponneso e con mezzi pubblici arrivammo a Epidauro e poi a Zakintos. Eravamo votati alla povertà e alla gioia disprezzando senza alcuna supponenza le regole esteriori della società civile. Anche ora, con più mezzi economici e con una saldatura maggiore nelle Albe, non abbiamo mutato i nostri ideali e la fiamma amorosa che ci unisce e ci attanaglia al nostro fare teatro è vivificata quotidianamente dalla “pulizia” dalle incrostazioni di vanità e potere».

La decostruzione e ricostruzione differente del sé e della propria idea di reale, anch’esse a loro modo guidate da un principio alchemico, che le direttrici di viaggio imprimono sulla pagina manoscritta incarnano, potremmo dire, quel doppio movimento dell’idea di spaesamento che Matteo Meschiari così delinea: «l’esotismo è un dispositivo dell’immaginario che prima di essere proiettato sugli altri si fa agire su se stessi; l’esotismo dei colori, degli odori, dei cibi, degli animali, delle razze sono indici di altrettanti slittamenti spaziali rispetto a una griglia topologica preconcetta; l’esotismo è a rischio perenne di usura e va costantemente e periodicamente rianimato […]. Basterebbe proiettare queste poche constatazioni sul concetto di “straniero” per disappannare l’occhiale critico di molti ricercatori, antropologi e geografi inclusi. La fenomenologia dello straniero che ne deriverebbe sarebbe più esatta e più avvincente. Ad esempio: lo straniero è colui che ci fa sentire stranieri; colori, odori, cibi, animali e popoli diversi non portano “da noi” solo se stessi, ma anche uno spazio invisibile che modifica la percezione del nostro stesso spazio familiare; lo straniero non è per sempre, va reinventato in modi sempre nuovi; lo straniero porta straniamento ma è al tempo stesso creato da uno straniamento; è il bisogno di antinomie che spinge a pensare lo straniero, ma pensare lo straniero in termini di antinomie significa annullare la sua forza eversiva. E così via».

E seguendo lungo l’archivio delle Albe questo doppio movimento, queste direttrici di fuga che decostruiscono l’idea di luogo consueto e stabile, l’idea di spazio conosciuto e abituale e, di conseguenza, l’idea stessa di cultura come qualcosa di chiuso e invariabile a essi connessa, ci conduce inevitabilmente a quel nucleo di intersezione fondamentale di tracciati differenti e convergenti che è la relazione delle Albe con l’Africa. Una relazione che s’inaugura come esigenza quasi immediata, a pochi anni dalla fondazione delle Albe di Verhaeren del 1983. Esigenza che incarna quel doppio movimento di messa in crisi di una cultura e delle certezze che essa conduce con sé e che si manifesta al suo esordio proprio a partire da un’analoga messa in crisi spaziale, geografica, estesa nello spazio intercontinentale e nel tempo di ere geologiche. Un dattiloscritto su carta intestata ‘Albe di Verhaeren’ recita:

Un manifesto che condensa, in una singola pagina, le prospettive che hanno portato alla fondazione delle cosiddette ‘Albe afro romagnole’ e quelle che da una simile fondazione si sono dipanate e sviluppate. È innanzitutto una destituzione spaziale, della stabilità geologica di un luogo, a incarnare, dunque, questa relazione che si stabilisce dalla metà degli anni ’80 e che attraverserà, a partire da Ruh. Romagna più Africa uguale (1987), il lavoro scenico delle Albe grazie a una commistione con la cultura, le immagini, i suoni e la lingua degli attori senegalesi che entrano a far parte della compagnia, ossia dapprima Iba Babou, Abibou N’Diaye, Khadim Thiam e, successivamente, Mandiaye N’Diaye, Mor AwaNiang, Massamba Niang ed El Hadji Niang. Destituzione spaziale che implica proprio quell’opportunità data dall’acquisizione dello ‘straniero’ in seno al proprio agire artistico di farsi ‘stranieri’ nella propria terra, nella propria città e nella propria cultura, o, meglio, di svelare in esse quelle pieghe invisibili che le rivelano già di per sé intimamente ‘straniere’, dunque da reimmaginare, da costruire altrimenti.
La storia di questa commistione e dei suoi esiti, che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si costituiranno come una delle assi più importanti delle Albe si riversa, con un analogo movimento, nell’archivio della e nelle sue differenti tipologie di materiali. Seguire, infatti, lungo l’archivio questa forza destrutturante che le Albe scelgono di imprimere al proprio lavoro attraverso la fusione con queste nuove componenti provenienti da luoghi e culture tanto radicalmente differenti, significa attraversare innanzitutto le diverse modalità con cui essa destruttura al tempo stesso i media nei quali si manifesta.

E, a ben guardare, è proprio il primo viaggio in Africa delle Albe, quello a Dakar del 1990, a inaugurare la sezione dell’archivio audiovisivo della compagnia che raccoglie i lavori catalogabili, a vario titolo, come ‘film’. Una sezione il cui primo elemento è, infatti, il cortometraggio Ravenna-Dakar realizzato da Giacomo Verde nel 1990, appunto.

Se ad aprire la partizione relativa agli sguardi audiovisivi sulle opere teatrali della compagnia era quella rimediazione de I brandelli della Cina che abbiamo in testa (1987) curata da Maria Martinelli, questo cortometraggio che inaugura la partizione relativa ai film legati alle Albe è una differente forma di rimediazione, ossia quella del viaggio della compagnia a Dakar tra il Gennaio e il Febbraio del 1990, per la realizzazione del progetto Ravenna-Dakar, coprodotto dal Festival di Santarcangelo e dal Comune di Ravenna, di cui, tra i faldoni dell’archivio, troviamo un dattiloscritto che così lo descrive:

Mentre un appunto sul diario di viaggio di Montanari, della notte tra il 3 e il 4 Gennaio, riporta: «Qui c’è un europeo su 1000. Forse. Abbiamo la rara possibilità di vederci dal di fuori, di essere a contatto con una cultura così distante, siamo immersi in un ignoto che ci allargherà le orecchie, ci allargherà gli occhi e ci ingrandirà l’anima. […] Quel senso di inquietudine di questi primi giorni, oggi mi è sembrato un po’ più chiaro. È la grande diversità fisica, è il sentirci e avvertirci del tutto stranieri e estranei. Stranieri nei corpi, nelle facce, nella deambulazione. Vedo i miei compagni diversi, non li do per scontati. Scruto le loro facce e la mia. Mi sembra di vederli e vedermi per la prima volta dopo tanto. Che questo ci stimoli a una ricerca di maggiore bellezza?».

Un mettersi alla prova nel luogo geograficamente più distante e insieme più vicino all’anima della compagnia in quei primi anni di lavoro, per uno svelamento di questa doppia dimensione di estraneità e familiarità, di prossimità e lontananza. Una annotazione che si colloca proprio in quel rivelatore spazio interstiziale che si spalanca, all’interno del viaggio, nella concava dimensione temporale svincolata dal tempo pieno del lavoro, dell’attività, del fare.
E un salto temporale che ci conduce al 2019 di Nairobi ci permette di osservare una differente modalità di rimediazione attraverso il mezzo filmico di questo legame con l’Africa. Ci riferiamo ancora a The sky over Kibera, il film girato da Marco Martinelli a seguito della propria esperienza con i 150 ragazzi del più grande slum della capitale kenyota. Un ritorno differente nel continente africano, stavolta in Kenya e nel segno di Dante Alighieri. Ritorno differente ma affine per la medesima necessità di convertirsi in linguaggio filmico e per le modalità con cui, anche qui, è un’idea di messa in crisi di un luogo, in questo caso di un luogo tanto drammatico come quello di Kibera, a essere, in qualche modo, centrale.

Una messa in crisi tramite i corpi dei bambini e dei ragazzi che lo percorrono, lo invadono, lo attraversano, come nel caso della lunga sequenza del piccolo John che ci conduce lungo l’inferno dello slum.

O tentando di obliterarlo e di convertirlo in una dimensione corale che cerca una via di fuga da esso, come nel finale del ‘Purgatorio
dei Poeti’.

DAL MACROCOSMO AL MICROCOSMO: IL CAMERINO E LE SUE SOPRAVVIVENZE

Ed è con un altro salto, stavolta dal macrocosmo al microcosmo, potremmo dire, dalle connessioni intercontinentali a quelle invisibili, che l’archivio ci conduce in un’ultima declinazione di questo movimento decostruttivo che investe l’idea di luogo e di spazio nell’universo delle Albe. In particolare, ci riferiamo alla declinazione che concerne lo spazio più intimo e ristretto che riguarda la sfera teatrale e attoriale, ossia il camerino. Una specifica partizione dell'archivio delle Albe, infatti, ospita quello che possiamo delineare come la condensazione materiale di un’idea di camerino vocata a una destrutturazione del suo legame chiuso con la singola opera cui fa riferimento, nella direzione di un’apertura all’accoglimento, in un limitato e unico spazio, delle forze illimitate delle opere precedenti.

Si tratta, in particolare, della conservazione di trolley, scatole e valigie che accompagnano, di volta in volta, Ermanna Montanari attraverso le tournée degli spettacoli delle Albe, contenendo gli elementi con i quali, minuziosamente e quasi attraverso un rito preparatorio alla creazione scenica e all’entrata in scena, allestirà il proprio camerino.

Un allestimento che implica in modo potente un’idea di ambiente che non coincide con il luogo fisico che lo accoglie, che mira a travalicarlo e scompaginarlo. Al fianco degli elementi di uso più comune e concreto – dagli accessori per l’igiene personale ai trucchi, dai kit da cucito per eventuali rammendi di abiti di scena agli oggetti effettivamente utilizzati all’interno dello specifico spettacolo – si trovano, mescolati senza gerarchie e soluzione di continuità, altri elementi di varia tipologia. Elementi che vanno da oggetti risalenti a opere precedenti a doni ricevuti nel corso del tempo all’interno della fitta rete di relazioni intessuta negli anni, dagli incensi e i minerali legati al rito propiziatorio che precede ciascuna replica ai chiodi da palcoscenico di varia forma e dimensione che Montanari raccoglie in ciascun teatro nel quale si trova a lavorare.
Un ‘paesaggio arcipelagico’ di elementi scelti e conservati per la loro capacità di concentrare in sé, possiamo dire, nuclei di forze che catalizzano quelle delle opere precedenti fondendole con le altre provenienti dal mondo di tutti i giorni e veicolandole in una sorta di unico, campo comune che possa proiettarle nella direzione dell’opera presente e della scena che la accoglierà. Una modalità quasi ‘magica’ di non disperdere le energie di ciò che è stato, dei lavori già conclusi, degli eventi trascorsi, ma di considerarle, piuttosto, come elementi vitali da imbrigliare e tramandare.

Condensazioni di elementi che, dunque, modificano e smembrano l’idea stessa di camerino come semplice luogo di preparazione alla specifica replica, alla singola messa in scena, forzandolo piuttosto a scomporsi per accogliere tracciati di forze che lo connettono tanto a spazi già attraversati e vissuti, quanto a possibili luoghi futuri che ospiteranno i medesimi campi di intensità da recuperare e tenere in vita.

Una estrema eterogeneità di elementi che compongono quelli che richiamano alla mente le 610 ‘time capsules’ realizzate nel corso della sua vita da Andy Warhol e che, a ben guardare, possiamo dire che si pongono come la perfetta condensazione di un’idea di archivio teatrale caratterizzato dalla necessità di considerare un’ampia varietà tipologica di materiali come indispensabili per una visione realmente stratificata delle pratiche e dei processi creativi di una compagnia e dall’esigenza di trattarlo come custode di forze ancora in vita piuttosto che di tracce ormai morte di ciò che un tempo era stato vivo e presente. Fino alla volontà di considerare questa complessità di elementi non come destinati a una mera testimonianza del già fatto, ma come dispositivo funzionale a una costante rimessa in vita delle direttrici che essi rivelano.

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