l'opera
Caro spettatore, questo è il teatro delle Albe. Vabbé…
Noi ci sentiamo come gli alberi di città: crescono in un fazzoletto di terra imprigionata nel cemento, e gridano muti.
Ci sentiamo come quei merli di città, teppisti, che col becco vanno a rompere i coperchi delle bottiglie di latte, lasciate davanti al portone dal lattaio della mattina.
Noi ci sentiamo come ci ha definito un nostro amico (sapiente e burlone): assolutamente “pre”-moderne.
Animali in gabbia.
Sappiamo, con Bateson, Giordano Bruno, Lucrezio (tra le stelle più luminose della nostra costellazione) che il divino dimora nel fiore come nel motore di una motocicletta, e che il grande peccato è separare la mente dal corpo.
Confine è la fame di felicità che ci spinge ad alzarci ogni mattina, e desiderare, e ricominciare.
Albe di Verhaeren
Rha-ma, città delle lune
aprile ‘86
Tempo fa chiedemmo a Marco Belpoliti, amico e scrittore, di scrivere qualcosa per noi. Marco non pensò ad un testo teatrale, ma scrisse dei racconti sul mondo dei circhi di periferia, quelli più malandati, dove a fatica riuscite a vedere un leone, dove pochi “artisti” fanno di tutto sotto differenti travestimenti, dal vendere cuscini all’ingrosso, al calarsi nei panni di un funambolo ungherese o in quelli di un improbabile domatore spagnolo.
Affascinati dall’atmosfera che percorreva i racconti, miscela di sogno e “crudezze”, decidemmo di non metterli in scena, ma di giocarci contro.
Da questo gioco è nato CONFINE.
Spettacolo di confine lo è davvero per le Albe.
Terminato il “cantiere Dick”, ci poniamo, a partire da questo lavoro, l’obiettivo di una scrittura scenica autonoma, di un linguaggio teatrale che non rispecchi la drammaturgia del testo, ma produca esso stesso drammaturgia, poesia del teatro.
Abbiamo sempre inteso, anche negli spettacoli precedenti, mettere al centro l’attore, il suo corpo, le sue ferite; qualcosa, forse la sudditanza al ‘progetto’ precedentemente definito, faceva sì che tale presenza a volte sbiadisse, perdesse di peso.
Durante le prove di nel loro procedere, ci siamo resi conto che la ‘pratica’ dell’attore può essere sottolineata sino a farsi progetto, invenzione di un teatro necessario, necessario per chi lo fa come per coloro che lo andranno a consumare.
Il ruolo del regista, allora, non potrà essere quello di cane da guardia del testo: il regista crea insieme all’attore le condizioni della “di lui” esplosione, per poi esiliarsi lontano dalla scena e farsi assenza partecipe, occhio che guarda e aiuta, misurando tempi, reazioni, cadute.
Più che di “testi”, una simile strada avrebbe bisogno di scrittori, uomini in carne ed ossa, che mettano al loro “pratica” produttrice di visioni, a reagire con il lavoro dei teatranti.
Raffè è tante cose.
Cucciolo di balena bianca, domatore di animali registrati, Pino e il suo pesce-fachiro, Sansone e le sue formule magiche.
Il circo Watutsi può concentrare tutto questo, ed i confini sono poco chiari.
Raffè è soprattutto un clown che lotta contro angeli invisibili, angeli cattivi che la riempiono di buffe, cioè di schiaffi.
Raffè è un “buffone del profondo”, come titola uno stupendo quadro di Klee.
Raffè, come Gabalo e Chip in EFFETTI RUSHMORE, come Galy Gay in RUMORE DI ACQUE, è un essere scombinato in un universo chiuso e caotico: e nutre desideri infiniti.
Essi mirano a superare il mondo, o meglio, come scrive Starobinski a proposito della figura archetipica del clown, «a introdurre nel mondo il segno tangibile di una passione venuta da altrove, o che altrove mira».
crediti
di Marco Belpoliti
dedicato a Nanni Valentini
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari
invenzioni visive e costumi Cosetta Gardini
realizzazione costumi Maria Grazia Dondarini
luci Lino Gerosa
suono Marco Martinelli
collaborazioni Sarah Quaito, Luisa Pretolani, Riccardo Poletti
regia Marco Martinelli
produzione Albe di Verhaeren, Comune di Bagnacavallo
Prima nazionale: Bagnacavallo, Teatro Goldoni, 5 febbraio 1986