L'OPERA
Il primo racconto di traversata che ho ascoltato a Mazara, nella sede della San Vito Onlus, è stato quello di una minuta, coraggiosa donna tunisina: timida, col suo italiano spezzettato tra i denti, faceva fatica ad alzare gli occhi. Ho cambiato il suo nome in Jasmine, ho trasfigurato la sua storia mantenendone gli aspetti essenziali. E’ la prima che ho ascoltato ed è anche l’unica storia, tra quelle evocate dal generale, che riguarda non un annegato o uno scomparso, una morte, ma una vita che si salva. Si salva davvero? Nelle grinfie del vecchio italiano che, dice lui, “è sempre piaciuto”? Alla fine quando ho le chiesto se l’avrebbe rifatto quel viaggio, mi ha risposto decisa di no. Che se ne sarebbe rimasta a Tunisi.Robert Louis Stevenson parlava spesso dei “brownies”, gli “oscuri”. Sono, a detta dello scrittore, “quegli omini che dirigono il teatrino interiore che c’è in ognuno di noi”. Sono i nostri collaboratori principali, quelli che ogni notte costruiscono gli “spettacoli”, i sogni che sogniamo. Ai “brownies” debbo la figura del generale. Ma non era un uomo in divisa: era un essere mostruoso, metà umano metà animale. Un animale sconosciuto. E’ voltato di spalle, fa per voltarsi ma non ci riesce, volta appena appena la testa come se avesse il collo incriccato, non riesco a riconoscerlo. Assomiglia a qualcuno, mi pare, a chi? Piegato su un ammasso di carte, nudo, peloso come se indossasse una pelliccia, davanti a una pila di fogli pieni di numeri trascritti malamente, segnacci, sgorbi. Li guarda, li mette in ordine, la salsedine li ha consumati, qui non si legge, neanche questa cifra si legge, di scatto butta a terra tutti quei fogli, esasperato. La contabilità, la burocrazia come unico modo di sopportare l’orrore. Di non pensarci. Di essere portatore dell’orrore. Pensavamo a Gheddafi, tra noi lo chiamavamo il “Gheddafi”. Volevamo intitolarlo così lo spettacolo. Ci leggevamo i suoi discorsi, ci guardavamo le sue fotografie. Poi invece … troppo facile pigliarsela con lui, con “quel” dittatore furbo e sanguinario, affibbiargli la maschera del colpevole. Certo, colpevole lo è, e tanto, quell’ennesima replica di Padre Ubu, ma noi? Io? Siamo innocenti noi? Sono innocente io? Di tutte quelle tragedie che avvengono altrove, lontano dalla mia casetta, posso ritenermi non responsabile? Che c’entro io con la morte di mio fratello? Quel generale acido e nevrotico, quel funzionario che ne ha le scatole piene di star lì a contare numeri e morti e metterli in fila, un lavoraccio, tutti i giorni così, pure mal pagato da quelli delle capitali, quel ragionierino demoniaco e sarcastico, quello spettatore impotente davanti ai telegiornali, quello, proprio quello, siamo noi. Sono io. Quel volto che ora finalmente si volta, metà umano metà animale, che mi guarda diritto negli occhi, è il mio. Lo sproloquio è venuto fuori di getto, un flusso inarrestabile di numeri e immagini. L’ho scritto a Mons, sotto la neve, nei giorni di pausa delle prove del detto Molière: le domeniche mi chiudevo in casa e sprofondavo nel Canale di Sicilia, il grigio cielo del nord Europa si trasformava nella luce del Mediterraneo. Mi rileggevo tutto quel che mi ero appuntato nel mio quaderno dei viaggi a Mazara, durati più di un anno. Storie e racconti, ma non solo. Il canto del muezzin sul suolo italico. Le viuzze intricate della casbah. Il verde squillante delle cupole della cattedrale. Mi nutrivo anche di quelle che erano state le impressioni più forti dei miei compagni di avventura: Ermanna, che aveva sentito subito la presenza del vulcano, un vulcano sotto l’acqua, un’acqua rossa, infuocata, e su quella aveva da subito immaginato un militare (come fa lei, senza un collegamento logico, per via intuitiva, ben prima che io sognassi il generale metà uomo metà animale); e Alessandro, che riprendeva tutto quel che poteva con la telecamera, imparava frammenti di tunisino lavorando con gli adolescenti della non-scuola, e rivedeva sotto altra luce le sue radici mazaresi, ricucendo genealogie e arazzi di storie familiari. Questo oratorio per i sacrificati, i Fratelli Mancuso lo hanno arricchito con le loro potenti voci di satiri antichi, che sembrano gridare il dolore dell’umanità dal fondo di un abisso.
Marco Martinelli
Rumore di acque è la seconda tappa del trittico del Teatro delle Albe Ravenna-Mazara 2010 - a cura di Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Alessandro Renda - ovvero tre opere che in maniera differente prendono Mazara del Vallo come simbolico luogo di frontiera e punto di partenza per un affresco sull'oggi. A questo allude il titolo dell'intero cantiere di lavoro, oltre che alle due città in cui si svolgeranno e saranno presentate le opere, città segnate nella loro storia millenaria dalla presenza del mare.
CREDITI
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
in scena Alessandro Renda
musiche originali eseguite dal vivo Fratelli Mancuso
spazio, luci, costumi Ermanna Montanari, Enrico Isola
realizzazione costumi Laura Graziani Alta Moda, A.N.G.E.L.O.
direzione tecnica Enrico Isola
tecnico del suono Andrea Villich
realizzazione scene squadra tecnica Teatro delle Albe Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Danilo Maniscalco, Dennis Masotti con il contributo di Amir Sharifpour (Opera Ovunque)
promozione Marcella Nonni, Silvia Pagliano, Francesca Venturi
ringraziamenti Tahar Lamri, Gabriele del Grande, Franco Sferlazzo, Antonino Cusumano, Goffredo Fofi, Piera Buscarino, Rosalba Ruggeri, Vincenzo Renda, Marco Carsetti - Associazione Asinitas, Rome, Padre Francesco Fiorino - Fondazione San Vito Onlus di Mazara del Vallo, B.O. Service, W.M. Service
coproduzione Ravenna Festival, Teatro delle Albe-Ravenna Teatro, “Circuito del Mito” della Regione Siciliana, Sensi Contemporanei
Con il patrocinio di Amnesty International
Prima nazionale: Ravenna, Ravenna Festival, Teatro Rasi, 10 luglio 2010
Chi non annega nei primi cento metri ha altri cento chilometri per farlo. E se non è la barca che prende acqua e affonda è il motore che si rompe. Patatrac. E la manda alla deriva. Per giorni, settimane, nel buio della notte. Ghiaccio e tenebre.